Carmelo Baglivo «Immaginare Roma è il mio modo di pensare l’architettura»

Sono diventato un architetto per volontà di mio padre. Da ragazzo amavo il disegno e avrei sicuramente intrapreso strade che mi avrebbero portato all’arte o all’illustrazione.

Appena mi sono iscritto alla facoltà di architettura di Roma ho subito preso la cosa molto seriamente tanto che, sin da giovanissimo, ho iniziato a fare esperienze di lavoro in diversi studi di architettura. Queste prime esperienze sono state molto formative e la realtà professionale mi ha subito svelato il difficile rapporto tra la teoria e la pratica, tra la professione quotidiana e quella insegnata, cioè il difficile rapporto, tutto italiano, tra l’accademia e la professione.
Quest’attrito tra ideali e realtà ha formato la mia visione dell’architettura come disciplina dei grandi compromessi, in cui l’architetto è una figura che deve avere una forte coscienza politica per affrontarli. E’ questo l’impegno che amo nell’architettura.

 

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Pantheon con Struttura – 2014

In genere mi appassiono a un autore e cerco di studiarlo a fondo. Non amo coltivare contemporaneamente autori diversi, lo considero un atteggiamento che porta a una comprensione superficiale delle cose.
La mia grande passione al di fuori dell’architettura sono i fumetti, avrei voluto fare il fumettista.
Considero il fumetto una forma espressiva molto vicina all’architettura perché, oltre a rappresentare una storia, raffigura gli spazi in cui vivono le persone e i loro desideri.
Sono storie disegnate in cui l’architettura entra nella narrazione e nell’interpretazione del racconto.
A differenza di molti disegni di architettura, che sono autoreferenziali, nel fumetto l’architettura non è mai sola e se lo è ha un significato narrativo, racconta storie come le raccontano i personaggi e assume gli stessi connotati grafici.
Altre passioni sono la filosofia e l’arte.
L’architettura è una disciplina lenta e per questo, la ricerca teorica, per essere aggiornata, ha bisogno di confrontarsi sempre con altre discipline.
Nell’architettura troviamo testi e citazioni di filosofi come Bauman, Deridda, Cacciari, Žižek…. etc.
Ognuno di loro descrive e costruisce la realtà al di fuori della tecnica, in modo più libero e estetico. Attenzione però agli sconfinamenti tra le discipline che spesso tendono a confondere i principi fondativi e il carattere della disciplina stessa. Per esempio nel difficile rapporto tra architettura e arte e nella confusione che si è creata tra oggetto architettonico e oggetto artistico, come nel caso del museo MAXXI di Roma dove l’architettura dell’edificio compete con le opere d’arte al suo interno. Gli sconfinamenti sono degli ottimi strumenti per abbattere i sistemi consolidati e accademici, ma credo anche nell’autonomia della disciplina architettonica (in questo periodo sto leggendo tutto su Boullé)

 

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The five points – 2014 1 Pilotis: Fill the space in between!2 Toit terrasse: Build on it! 3 Plan libre: Demolish inside! 4 Facade libre: Leave the existing facade! 5 Fenetre en lounger: Don’t care!

Essere un maestro per gli altri
Maestro è un appellativo antico che designa un uomo con delle qualità superiori, un appellativo legato al mondo umanistico, maestro era chi, considerato tale dalla comunità, poteva tramandare il suo sapere.
Oggi è sostituito da appellativi più vicini a un sapere scientifico e tecnico, come per esempio: “Essere uno specialista nel proprio settore” o “uno dei massimi esperti”.
La tendenza è di formare comparti separati, ridurre il maestro a una semplice figura specializzata in un mondo ormai troppo complesso.
Io che sicuramente non mi sento uno specialista, sto vivendo la fatica di questo cambiamento.
Diciamo che essere considerato maestro offre delle grandi opportunità, come per esempio avere un rapporto privilegiato con gli altri. Questo ti permette di avere una vita ricca di relazioni e scambi. Perciò essere un maestro, significa dare molto e ricevere moltissimo.

 

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Luna Park Rome – 2016

La formazione di un architetto
Spesso l’architetto è, erroneamente, visto solo nella sua dimensione creativa, di creatore del bello. Non dobbiamo dimenticare però, che è anche un tecnico e per questo coinvolto da tutta una serie di discipline del costruire. È una figura che riunisce la dimensione umanistica con quella scientifica.
La figura dell’architetto è nel mezzo.
L’architetto non potrà mai essere una figura univoca così negherebbe la sua stessa disciplina, l’architettura, il cui nome è composto di due radici una umanistica e una tecnica, due parole che occupano lo stesso spazio e hanno lo stesso peso: “archè” sono i principi primi, l’origine e “technè” è la tecnica.

Come insegnante
Per me è importante insegnare lo studio delle fonti.
Insegnare agli studenti che le proprie capacità e potenzialità sono rafforzate dallo studio della storia; pensata non come un noioso susseguirsi di eventi e oggetti, ma come un gioioso accumulo di esempi, tutti da “saccheggiare”. C’è chi ha fatto il nostro mestiere prima di noi.
In secondo luogo amo insegnare la coerenza, cioè la capacità di portare fino in fondo le proprie idee e difenderle. Portarle a pieno compimento senza disperderle.
Infine cerco di insegnare che la progettazione è una pratica, che ci accompagna in ogni momento della nostra vita.

 

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Roma è una città dove la storia si è fermata, o almeno scorre molto lentamente.
A Roma il progresso dell’uomo e la sua forza non sono visti attraverso imprese e realizzazioni contemporanee ma sono visti soprattutto nelle opere che l’uomo ha realizzato nell’antichità come gli acquedotti, gli anfiteatri, i templi etc… La modernità si è ritagliata piccoli spazi, la contemporaneità ha fatto principalmente scempi e il passato, con i suoi ruderi, è paradossalmente l’unico luogo coerente, pur nella sua naturale incoerenza. Ludovico Quaroni, noto architetto romano, scriveva che chi progetta a Roma è condannato alla monumentalità. L’unico confronto possibile è con la storia.

Fare la professione a Roma significa scontrarsi prima di tutto con la difficoltà del costruire, Roma è la capitale della burocrazia e della mala-politica.
Carlo Giulio Argan, nella prefazione alla mostra “Roma Interrotta” scriveva che “Roma va immaginata e non pianificata”, ecco immaginare Roma è il maggior contributo a cui un architetto possa aspirare.

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Come architetto, mi sono formato principalmente a Roma che per me è sempre stata un grande laboratorio dove tutto è già stato sperimentato. Roma è un modello, ricca di tanti spunti.
Immaginare Roma è il mio modo di pensare l’architettura. Questo modo porta al paradosso, dove ogni progetto arriva a immaginare Roma, pur non essendo a Roma.
La città di Roma racchiude tutto, dalla monumentalità all’anonimato, dal pianificato all’abusivo, dalla realtà alla finzione.

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Archeo Fun – Rome 2016La Biennale

La mostra, dal titolo“Innesti” tenutasi al padiglione italiano curato da Cino Zucchi, ha dato una bellissima chiave di lettura a quello che spesso in architettura si fa ma che non è considerato di valore.
L’innesto ha un significato aulico, come gli innesti sui monumenti, monumento su monumento; oppure quelli con grande qualità architettonica (come il famoso innesto sui tetti di Vienna di Coop Himmelblau); ha anche un significato pragmatico (a volte abusivo), dove l’innesto è spontaneo e nasce da una necessità, una necessità immediata, un allargamento familiare oppure un ufficio che cresce. È legato alla crescita quotidiana dello spazio abitato, è qualcosa che viene dal di dentro, è la necessità del cambiamento e di adeguamento naturale dello spazio urbano.
Spesso sono le grandi trasformazioni che ci colpiscono, ma la maggior parte della città si trasforma nelle piccole cose.
Roma è un esempio, anche se in negativo, di come gli innesti sono trasformazioni quotidiane come chiudere un balcone, prendersi un sottotetto, occupare spazi condominiali, costruire in terrazza etc… Per me questo dovrebbe essere la prassi.

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Voici le métaboliste Le Corbusier 2014

 

L’architettura italiana contemporanea mi sembra figlia di molti compromessi. Mi sembra qualcosa d’inespresso e timoroso. Nessuno sembra intenzionato a rischiare e tutti sono allineati verso un sano pragmatismo, che poi porta alla produzione architettonica di un indolore International style, tanto amato dagli investitori.
Non riuscendo ad avere una nostra identità matura, l’architettura italiana segue le tendenze nelle loro fasi peggiori, essendo noi la provincia dove tutto arriva in ritardo.
Fatta questa premessa l’architettura italiana si mostra sempre molto viva nella grande capacità del singolo piuttosto che di una scuola. Pensiamo che il premio Mies è stato vinto dallo studio Barozzi Vega che è per metà italiano, oppure pensiamo a Pier Vittorio Aureli per il suo grande contributo alla crescita della teoria dell’architettura.

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Edificio residenziale nei fori romani – 2016

 

La mia terra è così incoerente e la sua storia così complessa e contraddittoria che è da amare o odiare totalmente. Solamente che, da italiano, amare e odiare sono sentimenti che possono convivere che si intrecciano sino ad unirsi. Sono affascinato dell’Italia del dopoguerra, una nazione che si risveglia dopo il secondo conflitto mondiale e produce tutto con una grande forza creativa e innovatrice tutto in un sistema politico e sociale incoerente e corrotto. Storia e cultura di questo periodo vanno a braccetto. Si deve rifondare tutto, dalla classe culturale a quella politica, in apparenza il passato di una nazione povera e analfabeta sembrano lontanissimo. Arte, architettura, cinema e scrittura giocano un ruolo fondamentale nel vedere le aberrazioni di quegli anni. Tra i tanti emerge la figura di Pasolini che sarà uno degli intellettuali che metterà a nudo le distorsioni di questa crescita, raccontando nei suoi film e scritti l’arretratezza sociale e culturale di un paese che affabulato dalla logica del pensiero consumistico perdeva pezzi di cultura e emarginava i più deboli. Anche l’architettura si prodiga nell’immaginare l’Italia del “Boom” economico e alla fine ne esce sconfitta dall’enorme forza della speculazione che costruirà intere città.

 

 

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Illuministi – 2014

 

Per un architetto che vive a Roma, la sovrapposizione è una pratica quotidiana. Roma è una città che si è formata attraverso la stratificazione, i monumenti raccontano la stratificazione ma non solo anche il paesaggio naturale a Roma è frutto della stratificazione. Una famosa collina nel centro della città è in realtà un rilievo artificiale formato da secoli di accumulo di pezzi di coccio ed da questo prende il nome “Monte dei Cocci”.
Questa è la Roma che si ferma ai primi del novecento, la città dentro le mura. La nuova Roma ha perso qualsiasi traccia della stratificazione perché nella periferia e nel nuovo costruito sembra non avere senso; la stratificazione, però, non si riduce alla semplice azione di sovrapporre cose per formarne altre, ma è qualcosa di più complesso e non semplicemente un atto formale. Ritorniamo al Monte dei Cocci, negli anni è stato colonizzato e tutt’intorno hanno costruito botteghe artigianali che poi negli anni successivi si sono trasformate adattandosi a nuove richieste funzionali. Forse è difficile pensare che oggi possa formarsi un nuovo Monte dei Cocci ma è possibile immaginare le potenzialità del pensiero architettonico che agisce attraverso la pratica della stratificazione che potremmo considerare non solo un’azione materiale ma una pratica sociale di nuovi sviluppi urbani.

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Ville Savoye 2016

Città sulla città è il nome dell’ultimo progetto che IaN+ ha presentato al concorso internazionale per il nuovo quartiere che sorgerà di fronte al museo MAXXI progettato da Zaha Hadid.
L’area del concorso ora è occupata da edifici di un’ex caserma militare; edifici semplici realizzati in muratura con capriate di ferro che sostengono le coperture a falda rivestite in tegole. Rispetto alle caratteristiche di quest’area, l’ idea è stata quella di mantenere questi edifici e costruire il nuovo al di sopra di essi. Il sotto rimaneva ancorato alla memoria storica mentre il sopra rappresentava il nuovo. La città può crescere su se stessa senza consumare nuovo suolo, senza cancellare il proprio patrimonio e la propria memoria. La permanenza degli edifici storici è la chiave per avere un progetto di qualità, dove la qualità è il rapporto tra nuovo e vecchio, il modo in cui questo rapporto è affrontato e risolto. La città si trasforma attraverso il dialogo, dal proprio interno e nel rispetto di ciò che esiste.

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Città sulla Città – concorso

Senza una coscienza storica è impossibile pensare la vita stessa. Come può esistere il futuro senza la consapevolezza del passato? Attenzione, però, alle possibili strumentalizzazioni della coscienza storica, che in certe condizioni diventa un limite, una barriera, un’arma che genera conflitti.
La coscienza sociale nel fare architettura è l’esatto opposto del fare architettura autoreferenziale, cioè riproducendo un marchio, una firma. Dobbiamo essere coscienti che il nostro lavoro non è un atto di esaltazione dell’ego del progettista o di chi rappresenta il potere, ma è un tassello che costruisce la memoria di una società e la sua rappresentazione attraverso la città.

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Distopia e Morte – 2016 (collage su Monumento Continuo di Superstudio)

 

La democratizzazione della bellezza è una chimera nata dalle avanguardie storiche quando hanno abolito la tecnica come valore dell’opera d’arte. Senza la tecnica come parametro estetico si sono aperti enormi campi dove tutto è arte, dove il bello non ha più senso. A questo punto non rimane che la bellezza imposta. Il canone del bello è imposto dai mass media. In architettura è riduttivo descrivere un’opera come bella, come lo è dire che è funzionale e così via. L’architettura contemporanea si batte contro questa classificazione. Prendiamo l’architettura parametrica. In questa ricerca non possono esistere il bello, il progetto è il risultato di un processo matematico che alla fine raggiunge una propria estetica. Apparentemente oggettiva e legata alla bellezza della matematica. La scienza con le sue visioni è spesso riuscita a produrre immagini che possiamo definire belle perché naturali, risultato di calcoli matematici, o viste dell’infinitamente piccolo o grande.

La democratizzazione della bellezza sembra anche percorrere un’altra strada cioè quella dell’uso di forme e linguaggi archetipici. Linguaggi per una comprensione di massa. Nei miei disegni spesso uso forme archetipiche. L’architettura è ridotta a struttura, i personaggi vengono dal mondo popolare del cinema, lo sfondo sono le città o la storia che ben conosciamo. Non c’è il timore di non capire e le interpretazioni sono multiple e tutte plausibili. Nella totale comprensione dell’opera si nasconde il riconoscimento della bellezza.

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La prima cosa che mi attrae di una città è la sua capacità di accogliere. L’accoglienza si può trovare in tante cose: nelle persone, negli oggetti e nell’architettura. Che cosa è un’architettura accogliente? Com’è fatta? Forse significa costruire una città attraversabile, aperta agli scambi e alle relazioni, dove lo spazio pubblico è vero, ed è realmente e liberamente vissuto.

La mia città ideale è quella dello spazio pubblico condiviso, la città fatta da spazi pubblici che nascono da vere necessità e sono senza barriere; dove gli spazi si trasformano, muoiono e rinascono. Non sono luoghi per accogliere monumenti ma nascono unicamente per essere usati.

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Partenogenesi o Anfigonia? 2016

Nella scuola del VCHUTEMAS di Mosca agli studenti veniva chiesto di rappresentare il pesante e il leggero attraverso oggetti, rappresentati da plastici e disegni. Da questo si deduceva che peso e leggerezza possono essere “rappresentati” dall’architettura, cioè sono intrinsecamente legati ad essa e non dipendono unicamente dalle scelte tecnologiche o di materiali. Per cui non trovano giustificazione affermazioni che definiscono un’architettura di marmo pesante mentre un’architettura in vetro leggera in termini assoluti. Leggerezza e pesantezza sembrano due categorie compositive, cioè attraverso la forma è possibile dare sensazioni di leggerezza e pesantezza. Un caso tutto italiano è dato dai due monumenti alle vittime della seconda guerra mondiale che furono costruiti subito dopo la guerra. Uno a Roma ( il monumento ai martiri delle fosse ardeatine di Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini) e l’altro a Milano (monumento ai caduti nei campi di concentramento di BBPR). Il primo è una grande lapide orizzontale che copre il luogo non appoggiando completamente sul terreno ma lasciando una lama di luce; il secondo è una struttura metallica che forma un volume cubico che poggia sul terreno. In questo caso composizione architettonica e scelta dei materiali collaborano alla definizione di pesantezza e leggerezza che danno forza a due opposti paradigmi: il monumento romano come espressione del dramma rappresentato dalla lapide e architettonicamente come simbolo di rottura con il razionalismo, mentre il monumento milanese come simbolo di una rinascita in continuità con l’architettura razionalista pre-guerra. Leggerezza e pesantezza sono così le basi fondanti di molta architettura. Io, però, che non amo le categorie compositive classificherei leggerezza e pesantezza per come l’architettura possa essere attraversata fisicamente e visivamente, leggerezza e pesantezza sono definite dal rapporto dell’architettura con l’uomo. Così un’architettura porosa è leggera mentre un’architettura chiusa è pesante. Per esempio molta dell’architettura antica romana dimostra questa leggerezza pur essendo realizzata con materiali lapidei. Il Pantheon, con la sua cupola interna bucata verso il cielo, è leggerissimo al contrario di molti edifici moderni realizzati in vetro che si mostrano chiusi e bloccati al suolo.

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Associo semplicità e nudità alla struttura. Molti dei miei disegni immaginano strutture “nude”. Elementi di misurazione dello spazio, in bilico tra il paesaggio e l’uomo, sono lì sullo sfondo, apparentemente disabitate. In realtà le immagino come strutture che aspettano di essere colonizzate e, quindi, abitate. La struttura è l’archetipo che colonizzato diventa architettura. Acquista di significato attraverso l’uso e si trasforma per accogliere le esigenze e le vesti che la cultura, la società e la politica vorranno dargli.

In architettura è molto difficile inventare, impossibile creare e facile copiare. Per cui, dato per scontato che le prime due categorie le lasciamo ai pochi geni che nascono in un secolo, non ci rimane che copiare. Il copiare, però, visto come un’attitudine positiva, di crescita su delle basi solide che sono state già pensate e verificate. Dopotutto l’architettura è anche tecnica perciò legata a un certo empirismo. Copiare è il modo più diffuso con cui l’architettura si riproduce. Si riproduce attraverso “modelli”. Una specie di evoluzione darwiniana dove la copia aggiunge sempre qualcosa all’originale. Munari in “Da cosa nasce cosa” scriveva che il primo passo che il progettista deve fare per affrontare un nuovo progetto è lo studio delle fonti. Altri esempi simili che, logicamente, hanno già affrontato e risolti i problemi. Copiare è rassicurante, il già visto è subito compreso, è stato già digerito, nessuna fatica.
Il problema inizia a esserci quando il copiare si trasforma fare qualcosa: “alla maniera di”, quando è eliminata la parte creativa (creativo non in termini assoluti ma copiare creativamente), cioè si nega l’evoluzione. Allora quando si arriva a questo punto, non resta che aspettare il genio!
Per tradizione intendo in architettura tutto ciò che ci lega al luogo, agli oggetti e i costumi di quel luogo. Possiamo pensare la traduzione come un’azione di riscrittura del luogo, delle sue architetture. Un processo creativo che nasce dal basso dalle cose che abbiamo. Tradizione e traduzione coesistono in un processo creativo di trasformazione. In questo sistema il tradimento è la negazione del rapporto fra tradizione e traduzione. Tradire significa abbandonare il luogo e operare al di fuori dei suoi valori e tradizioni.

 

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Villa Malaparte con Struttura – 2015

 

Penso al mio processo di progettazione è qualcosa che nasce e si nutre nel mio paese. Anzi, nel mio caso in un ambito ancora più ristretto: si nutre di Roma. La ricchezza di un pensiero è nella sua originalità, nel suo essere ben identificato ed essere portatore di unicità. Quando questo pensiero esce dai propri confini, diventa prima di tutto una ricchezza per tutti e poi uno strumento di dialogo e di messa in crisi degli altri pensieri. Inizia una fase di scambio e di dialogo che porta all’evoluzione del pensiero e al suo adattamento. Attenzione alla nascita dei pensieri dominanti che portano a schieramenti ideologici. Il mio pensiero è un pensiero elastico sempre pronto a mettersi in discussione e a nutrire il dubbio piuttosto che le certezze.

Gli antichi non distinguevano tra classico e moderno. Per loro esistevano gli antichi e i moderni. In seguito la definizione “classico” è stata usata per definire i modelli dell’architettura greca e romana, che a fasi alterne, nella storia occidentale, sono lo stile “classico” da copiare. Il classico diventa uno standard e le architetture moderne che imitano gli antichi diventano “classiche”. Questo per dire che non amo le definizioni che spesso si dimostrano strumentali. Sovrastrutture che servono a elevare barriere e creare appartenenze. Lobbies di pensiero che si formano per creare egemonie culturali.

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senza titolo – 2016

Nei miei disegni ho delle forme ricorrenti come il quadrato e la struttura mentre, nell’architettura no. Penso che il lavoro di un architetto sia in continua evoluzione per cui poco legato a un’idea statica di forma. Io, a dire il vero, non sono mai stato affezionato a una forma per molto tempo. Preferisco la coerenza delle idee e pensare l’architettura come un oggetto da usare. La forma viene dopo.
La dialettica del nostro tempo che ha sostituito quella di forma-funzione, direi quella di forma-superfIo. La contemporaneità è dare forma al superfluo, all’eccesso, allo sbalorditivo. Tutto deve rimanere rigorosamente in superficie, senza che queste trasformazioni tocchino l’interno, l’origine delle cose. Una super-architettura, come rappresentazione del benessere occidentale, del trionfo del consumismo e delle città come attrattrici di turisti. Super-città per super-cittadini (per i media). L’architetto è chiamato a dare forma al superfluo, ci fidiamo del suo talento, niente partecipazione ma sola imposizione.

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La storia di un popolo si può scrivere anche attraverso l’architettura che ha prodotto. L’architettura racconta la struttura sociale, è la forma di un popolo oppure, la forma del governo che il popolo dovrebbe esprimere. Potremmo definirla la forma del potere (inteso non in una accezione negativa). Qualche anno fa lo studio IaN+ fu invitato ha presentare, alla biennale di Venezia, un progetto che indagasse sulla “forma della democrazia”. Presentammo il progetto di una struttura aperta, contenitore di spazi dove fosse possibile una democrazia partecipativa che, al contrario delle contemporanee forme di partecipazione attuate sul web, si radicasse nello spazio fisico. Spazio fisico che era collocato di fronte ai luoghi del potere istituzionale come parlamenti o palazzi del governo. L’architettura diventa narrazione di questo processo di cambiamento e l’architetto incarna il ruolo dell’artefice e il persecutore del pensiero politico (dove per politica intendiamo la forma dialettica di relazione sociale). La sua architettura serve a soddisfare i bisogni. E tra i bisogni di un popolo c’è quello di essere rappresentato. Il progetto, presentato in biennale, è pensato per una società in continua trasformazione, per questo porta con sé il germe dell’instabilità, per pensare un’architettura “debole” per occupazioni momentanee.

Penso come un architetto. Questo l’ho capito dopo un po’ che producevo disegni. La spiegazione è semplice. Un artista vive una condizione di libertà che l’architetto non ha. L’artista può anche non giustificare la sua opera, in altre parole, qualcun altro può farlo per lui. All’architetto questo non è permesso. Un architetto cataloga, classifica e struttura. Soprattutto giustifica il perché di tutte le sue scelte. Io faccio questo con i miei disegni. Li raccolgo sotto dei temi, li ordino secondo la loro idea progettuale e comunicativa. Il disegno diventa la base teorica del lavoro di progettista, e questo è inevitabile e avviene, anche se non lo vuoi.

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Il rapporto tra disegno e progetto è molto difficile. Il disegno vive di vita propria e non è necessariamente la rappresentazione del progetto mentre può essere la rappresentazione di un processo. Nel mio caso i disegni sono completamente autonomi dal progetto, seguono un percorso parallelo, dove la convivenza tra i due è minata da diversi fattori che, essenzialmente, nascono quando ci si cala nella realtà. I miei disegni sono una riflessione quotidiana sui temi della ricerca che in quel preciso momento sto portando avanti. Una pratica giornaliera. Questa ricerca non è unicamente legata all’architettura, per esempio in alcuni collage saccheggio le opere di grandi artisti del passato, come Caravaggio, le cui opere sono spesso senza una quinta o uno sfondo costruito. Io metto loro, in questo caso, una quinta architettonica cambiando completamente il significato dello spazio pittorico e innescando processi di riflessione sull’architettura, come quello sull’intrusione dell’oggetto anonimo in un capolavoro, in altre parole, il rapporto tra memoria collettiva e azione individuale, la relazione tra nuovo e vecchio oppure la violenza che ogni trasformazione porta con sé. Tutti temi che s’incrociano con l’architettura, ma non dal punto di vista formale.

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Esercizio di Stile – (Kahn+Scarpa) – 2016

 

La street art, che sta arricchendo le nostre città ed è l’arte del momento. Comunica a tutti i livelli, può stare dentro o fuori i musei, anzi preferisce starne fuori. È molto sociale e agisce in aree urbane dove c’è bisogno di arte. È promotrice di trasformazioni. Questa forma d’arte è essenzialmente un disegno bidimensionale. La sua forza è la bidimensionalità. Che significa essere tutt’uno con il muro, per cui con lo spazio della città. Essere in rapporto con la storia e la memoria. Dunque non possiamo sicuramente affermare che la bidimensionalità sia anacronistica. Io ho scelto la strada della bidimensionalità per creare, forzatamente, un solco con il disegno tridimensionale. Negli ultimi tempi rappresentare l’architettura significa rappresentarla attraverso immagini reali. il disegno ha perso il suo essere autoriale e si è appiattito in una rappresentazione fotografica di quello che può essere la simulazione reale. Il disegno bidimensionale è ancora portatore di idee e concetti. Proprio nello scarto che esiste tra realtà e disegno della realtà riesce a comunicare la nostra idea della realtà che ha bisogno però di una carica intellettuale e interpretativa. Non può essere la banalizzazione di un’immagine iper-realistica. Altro discorso è il disegno dell’architettura parametrica. In questo caso non condivido l’idea che oggetto, e la sua rappresentazione, è considerato contemporaneo solo perché prodotto da un calcolo di un software. I miei disegni vogliono dire che siamo noi che scegliamo il punto di vista e che siamo noi che decidiamo la forma. Purtroppo spesso si confondono i contenuti con il contenitore. Il disegno digitale e tridimensionale è considerato contemporaneo mentre il disegno bidimensionale no, a prescindere dai contenuti.

Come si fa a parlare di futuro senza l’esperienza del passato. Vorrei uscire dal binomio temporale: passato e futuro, e descrivere la pura qualità atemporale delle cose. Senza un’attesa per il futuro. Intendo per attesa qualcosa che crea desiderio che può essere appagato solo attraverso il consumo o la sazietà dell’avere. Il disegno non è questo e anche l’architettura non deve esserlo. Il disegno “vive” in un tempo sospeso, interpretabile. Propone una lettura del passato e una strategia per il futuro ma è essenzialmente fermo in un tempo indefinito. Nei collage la struttura è un elemento architettonico che sta nel mezzo del processo di costruzione, è un’opera incompleta che però già suggerisce la forma e la dimensione. I personaggi presi dal mondo del cinema sono sradicati dal loro spazio temporale. Sono finzioni bidimensionali di realtà immaginate. I disegni vogliono parlare di architettura, di città, di storia e di paesaggio in una forma aulica di distacco dal mondo reale, per arrivare a un’astrazione figurativa paradossalmente oggettiva e univoca.

I miei disegni suggeriscono dei percorsi dialettici tra esperienze e discipline diverse, una narrazione che possa mettere in discussione la realtà. Sono degli stimolatori del dubbio, lo alimentano e fanno sì che s’insinui nella logica della certezza, vista come unica verità e comprensione del reale. La lettura non è univoca ma può rivelare diversi dati dall’osservatore. L’osservatore non è passivamente coinvolto ma è attivamente partecipe nell’interpretazione del disegno.

I disegni, come già scritto, sono spesso dei collage che prendono pezzi indifferentemente dall’antico al moderno, dal classico all’anticlassico, dal paesaggio comune al paesaggio aulico, dal naturale all’artificiale. Non c’è un’identità cronologicamente definita, lavorano per assemblaggio d’immagini che sono concetti e forme che unite, come le proposizioni di una frase, danno significato all’opera architettonica.

La teoria esiste nel distacco tra disegno e architettura e nella volontà di rendere questi disegni indipendenti e autonomi. L’autonomia del disegno è una forma di teoria, soprattutto se pensiamo la teoria come contrapposizione netta con la pratica. La teoria, però, deve trovare una sua applicazione nel campo pratico altrimenti è solo speculazione.
I collage offrono degli immaginari come chiave interpretativa delle trasformazioni possibili del reale.
Interpretano ma non costruiscono.

 

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EROS e THANATOS – 2014

Soy arquitecto por voluntad de mi padre.
De chico amaba el dibujo y seguramente hubiera elegido caminos que me hubieran llevado al arte o a la ilustración.
Apenas me inscribí a la facultad de arquitectura de Roma tomé la cosa muy seriamente tanto es asi que desde muy joven  inicié a trabajar en distintos estudios.
Estas primeras experiencias fueron altamente formativas  y la realidad profesional me hizo ver rápidamente la difícil relación entre teoría y práctica , la profesión cotidiana y aquella que se enseña , la relación difícil tan italiana , entre academia y profesión.
Este contrasto entre los ideales y la realidad formó mi visión de la arquitectura como una disciplina de gran compromiso, en la que el arquitecto es una figura que tiene que tener una fuerte conciencia política para hacerles frente. Y este es el compromiso que amo en la arquitectura.

Por lo general me apasiono por un autor y trato de estudiarlo a fondo. No amo dedicarme al mismo tiempo  a diferentes autores, considero que es una actitud que conduce a una comprensión superficial de las cosas.
Mi pasión fuera de la arquitectura son los cómics, me hubiera gustado ser dibujante de comics.
Considero las historietas una expresión muy cercana a la arquitectura, ya que, además de ser una historia, representa los espacios en los que viven las personas y sus deseos.
Son historias dibujadas en el que la arquitectura entra en la narración y en la interpretación de la historia.
A diferencia de la mayoría de los dibujos de arquitectura, que son auto-referenciales, en las historietas la arquitectura nunca está sola y si lo está es porque tiene un sentido narrativo, cuenta historias como las cuentan los personajes y asume las mismas características gráficas.

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Superarch

 

Otras pasiones son la filosofía y las artes.
La arquitectura es una disciplina lenta y por eso, la investigación teórica, tiene que relacionarse cada vez más con otras disciplinas para ser actual.
En la arquitectura, encontramos textos y citas de filósofos como Bauman, Derrida, Cacciari, Žižek, etcétera.
Cada uno de ellos describe y construye la realidad fuera de la técnica, de modo más libre y estética pero hay que tener cuidado al traspasar los límites entre las disciplinas que a menudo tienden a confundir los principios fundacionales y la naturaleza de la propia disciplina.
Por ejemplo, en la difícil relación entre la arquitectura y el arte, y en la confusión que ha surgido entre objeto arquitectónico y objeto de arte, como en el caso del museo MAXXI de Roma, donde la arquitectura del edificio compite con las obras de arte en su interior.
Pasar la barreras puede ser una herramienta excelente para romper los sistemas establecidos, pero creo en la autonomía de la disciplina de la arquitectura (en este periodo estoy leyendo Boullé)

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Boullée – Projet d’Opéra – élévation avec la sphère, le cône et le cube – 2014

 
Maestro es un sustantivo antiguo que designa a un hombre de cualidades superiores, relacionado con el mundo humanistico,  maestro era quien,  considerado tal por la comunidad, podría transmitir sus conocimientos.
Hoy se sustituye por sustantivos más cercanos a lo científico y técnico, tales como «ser un especialista en su campo» o «uno de los expertos»
La tendencia es formar compartimentos separados, reduciendo el profesor a una simple figura especializada en un mundo demasiado complejo.
Desde luego, no me siento un especialista, y me cuestan los problemas que surjen a partir de estos cambios.
Digamos que ser considerado maestro ofrece grandes oportunidades, como tener una relación especial con los demás, esto te permite tener una vida rica en relaciones e intercambios.
Por eso ser un maestro, significa dar mucho y obtener mucho mas.

Muy a menudo el arquitecto se considera solo, erróneamente, en su dimensión creativa, un creador de belleza.
No debemos olvidar, sin embargo, que también es un técnico y esto implicaba toda una serie de disciplinas en relacion al construir. Es una figura que combina la dimensión humanística con la científica, el arquitecto está en el medio.
El arquitecto nunca podrá ser una figura únivoca ya que esto sería negar su propia disciplina, la arquitectura, cuyo nombre se compone de dos raíces, una humanista y una técnica, dos palabras que ocupan el mismo espacio y que tienen el mismo peso, «archè «son los primeros principios, el origen y la» techne «es la técnica.

Para mí es importante enseñar el estudio de las fuentes, los origenes.
Enseñar a los estudiantes que capacidad y potencial se ven reforzados por el estudio de la historia; no concebido como una serie de eventos y objetos, sino como una acumulación alegre de ejemplos, todos para ser «saqueados».
Hay personas que han hecho este trabajo antes que nosotros.
Despues, amo enseñar la coherencia, es decir la capacidad de llevar sus ideas hasta el final y defenderlas, llevarlas a su plenitud sin dispersión.
Por último intento enseñar que proyectar es una práctica que nos acompaña en cada momento de nuestras vidas.

Roma es una ciudad donde la historia se ha detenido, o al menos se mueve muy lentamente.
En Roma el progreso y la fuerza de hombre no se ven a través de  obras contemporáneas, pero se ven sobre todo en las obras que el hombre ha creado en la antigüedad como los acueductos, anfiteatros, templos, etc … la modernidad se ha recortado espacios pequeños, lo contemporáneo realizado principalmente ha producido estragos y el pasado, con sus ruinas, es paradójicamente el único lugar coherente, a pesar de su inconsistencia natural.
Ludovico Quaroni, famoso arquitecto romano, escribió que quien proyecta en Roma esta condenado a la monumentalidad.
La única comparación posible es con la historia.
Ser arquitecto en Roma significa, ante todo, encontrarse con la dificultad de la construcción, Roma es la capital de la burocracia y la mala política.
Giulio Carlo Argan, en el prólogo a la exposición «Roma Interrupted», escribió que «Roma se puede imaginar pero no planificar», asi es, imaginar Roma es la mayor contribución que un arquitecto puede aspirar.

Como arquitecto, me formé principalmente en Roma que para  mí siempre ha sido un gran laboratorio donde todo ha sido experimentado, es un modelo, llena de tantas ideas.
Imaginar  Roma es mi forma de pensar la arquitectura.
Este camino conduce a la paradoja, donde cada proyecto  imagina Roma, aunque sin ser Roma.
La ciudad de Roma contiene todo, lo monumental y el anonimato, lo que no se debe hacer y lo planificado, la realidad y la ficción.

La exposición, titulada «Injertos», que se desarrollo en el pabellón italiano organizada y curada por Cino Zucchi, dio una hermosa clave de lectura de lo que hacemos a menudo en arquitectura, y a lo cual no se le da ningun valor.
El injerto tiene un significado culto, como los injertos en los monumentos, el monumento sobre monumento; o aquellos con gran calidad arquitectónica (como el famoso injerto sobre los tejados de Viena de Coop Himmelblau); también tiene un significado pragmático (a veces abusiva), donde el injerto es espontáneo y nació de la necesidad, una necesidad inmediata, una extensión de la familia o una oficina que está creciendo.
Se relaciona con el crecimiento diario del espacio de vida, es algo que viene de adentro, es la necesidad de cambio y ajuste del espacio urbano natural.

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Corrupting Lina – 2014

En general son las grandes transformaciones que nos afectan, pero la mayor parte de la ciudad se transforma con pequeñas cosas.
Roma es un ejemplo, en negativo, de cómo los injertos son cambios cotidianos, como cerrar un balcón, apropiarse de un techo, ocupar zonas comunes, construir en la terraza, etc.

La arquitectura contemporánea italiana me parece hija de muchos compromisos.
Me parece algo tácito y temeroso.
Nadie parece estar dispuesto a arriesgar y todos están alineados en un pragmatismo sano, que a su vez conduce a la producción de un estilo arquitectónico internacional indoloro, tan amado por los inversores.
No pudiendo tener nuestra propia identidad, la arquitectura italiana sigue las tendencias en sus peores fases, es la provincia donde todo llega tarde.
Al mismo tiempo la arquitectura italiana se muestra siempre despierta a lo individual mas bien que a la formación de una escuela.

Mi tierra es tan incoherente y su historia tan compleja y contradictoria que se la ama o se la odia  por completo.
Sólo que, como italiano, el amor y el odio son emociones que pueden convivir, que se tejen y mezclan hasta unirse.
Me fascina la Italia del  posguerra, una nación que despierta después de la Segunda Guerra Mundial y produce todo con una gran fuerza creativa e innovadora  todo esto dentro de un sistema político y social inconsistente y corrupto.
Historia y cultura de este tiempo van de la mano.
Se debía fundar de nuevo todo, desde lo cultural a la clase política, en apariencia el pasado de una nación pobre y analfabeta parece lejana.
Arte, arquitectura, cine y escritura juegan un papel clave en la lectura  de las  aberraciones cometidas en esos años.
Entre muchos se destaca la figura de Pasolini que será uno de los intelectuales que pondrá en evidencia las distorsiones de este crecimiento, contando en sus películas y escritos del atraso social y cultural de un país que corrupto por el pensamiento consumista perdió piezas de la cultura y marginaba a  los más débiles.
La arquitectura también se esfuerza en imaginar la Italia del boom económico y finalmente se ve derrotada por la enorme fuerza de la especulación que construye ciudades enteras.

Para un arquitecto que vive en Roma, la sobreposición es una práctica diaria.
Es una ciudad que fue formada por capas, los monumentos cuentan la estratificación, no solo, sino  también el paisaje natural en Roma es el resultado de la estratificación.
Una famosa colina en el centro de la ciudad es en realidad un relieve artificial formado por siglos de acumulación de piezas de barro, de cerámicas,  y esto se llama «Monte dei Cocci».
Esto es la Roma, que se detiene en el principio del siglo XX, la ciudad dentro de las murallas.
La nueva Roma ha perdido todo rastro de la estratificación, en las periferias  y en la nueva construcción parece no tener sentido la estratificación ya que todo es nuevo.

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Favelas House – Casa sulla Favelas – 2016

 
Sin embargo, la estratificación no se limita al simple acto de superposición para formar otras cosas, pero es algo más complejo y no sólo un acto formal.

Volvamos al Monte dei Cocci, en los últimos años ha sido colonizado y se han construido alrededor talleres que luego en los años siguientes se han adaptado a las nuevas necesidades funcionales.
Talvez es difícil pensar que hoy en día se puede formar un nuevo Monte dei Cocci pero se puede imaginar el potencial del pensamiento arquitectónico que actúa a través de la práctica de superposición de capas que podriamos considerar sólo como  acción material, sino como práctica social de nuevos desarrollos urbanos.

Ciudad en la ciudad  es el nombre del último proyecto que IaN + ha presentado en el concurso internacional para el nuevo barrio que se construirá en frente del museo MAXXI diseñado por Zaha Hadid.
El área de la competición ahora está ocupada por edificios de un antiguo cuartel militar; edificios simples hechos de mampostería con cabreadas de hierro y techos de tejas.
En relación a las características de esta zona, la idea ha sido la de mantener estos edificios y construir lo nuevo por encima de ellos.
Lo de bajo permanecería anclado a la memoria histórica mientras que lo de arriba  representaría lo nuevo.
La ciudad puede crecer sobre sí misma sin consumir mas tierra, sin borrar su patrimonio y la memoria.
La permanencia de los edificios históricos es la clave para tener un proyecto de calidad, donde la calidad es la relación entre nuevo y viejo, el modo en que se aborda y resuelve este relación.
La ciudad se transforma a través del diálogo, desde su interior y en el respeto de lo que existe.

Sin un sentido de la historia es imposible pensar la vida misma.
¿cómo puede haber un futuro sin el conocimiento del pasado?
Atención, sin embargo, a la posible manipulación de la conciencia histórica, que bajo ciertas condiciones se convierte en un límite, una barrera, un arma que genera conflictos.

La conciencia social en el hacer arquitectura es el opuesto exacto de la arquitectura referencial, es decir, la reproducción de una marca, una firma.
Debemos ser conscientes de que nuestro trabajo no es un acto de exaltación del ego del diseñador o de quién representa el poder, sino que es una pieza mas que construye la memoria de una sociedad y su representación a través de la ciudad.

La democratización de la belleza es una quimera nacida de la vanguardia histórica, ya que abolieron lo técnico como valor de la obra de arte.
Sin la técnica como parámetro estético se han abierto enormes campos donde todo es arte, donde la belleza no tiene sentido.
Por lo tanto lo que queda es la belleza impuesta.
El canon de belleza es impuesto por los medios de comunicación.
En la arquitectura es simplista  describir una obra como “bella” o decir que es funcional y así sucesivamente. La arquitectura contemporánea está luchando contra esta clasificación.

Tomemos la arquitectura paramétrica, en este campo no puede existir lo bello, el proyecto es el resultado de un proceso matemático que con el tiempo llega a su propia estética, aparentemente objetiva está vinculada a la belleza de las matemáticas.
La ciencia a menudo es capaz de producir imágenes que se pueden definir como hermosas y son el  resultado natural de cálculos matemáticos, de lo infinitamente pequeño o grande.

La democratización de la belleza también parece ir por otro camino que es el uso de formas y lenguaje  arquetípicos. Lenguajes necesarios para una comprensión de la masas.
En mis dibujos suelo utilizar formas arquetípicas.
La arquitectura se reduce a la estructura, los personajes provienen del mundo del cine popular, el fondo es la ciudad o la historia que conocemos bien.
No existe el temor de no entender y las interpretaciones son múltiples y todo es  plausible.
En la comprensión total de la obra se encuentra el reconocimiento de la belleza.

La primera cosa que me atrae de una ciudad es la capacidad que tiene de recibir, de bienvenida.
Esta capacidad se puede encontrar en muchas cosas, en las personas, los objetos y la arquitectura.
¿cuál es la arquitectura acogedora? ¿cómo se hace? tal vez significa construir una ciudad transitable, abierta al intercambio y a las relaciones, donde el espacio público es real, y se vive de verdad y en libertad.
Mi ciudad ideal es la del espacio público compartido, la ciudad hecha de espacios públicos que se derivan de las necesidades reales y no tienen  barreras; donde se transforman los espacios, mueren y renacen. No hay lugares para dar cabida a monumentos, nacen para ser utilizados.

En la escuela de  Vchutemas de Moscú  a los estudiantes se les pidió que representaran el peso y la levedad a través de objetos, modelos y dibujos.
De esto se deduce que el peso y la levedad  puede ser «representado» por la arquitectura, que están intrínsecamente vinculados a la misma y no dependen únicamente de opciones  materiales o  tecnológicas.
Por lo tanto no se puede definir  en términos absolutos  pesada una arquitectura en mármol y leve la arquitectura de cristal.
La ligereza y la pesadez parecen ser categorías de composición, es decir, a través de la forma es posible dar estas sensaciones.
Un caso italiano está dado por dos monumentos a las víctimas de la Segunda Guerra Mundial. uno en Roma (el monumento a los mártires de los boxes Ardeatine Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, Mario Fiorentino, Giuseppe Perugini) y el otro en Milán (monumento a los caídos en los campos de concentración de BBPR). La primera es una gran placa horizontal que cubre el lugar, no está completamente apoyada en el suelo, pero deja un espacio de luz; la segunda es una estructura metálica que forma un volumen cúbico que descansa en el suelo.
En este caso, el diseño arquitectónico y la selección de materiales colaboran en la creación de pesadez y ligereza que da fuerza a dos paradigmas opuestos: el monumento romano como una expresión del drama representado por la lápida y arquitectónicamente como un símbolo de la ruptura con el racionalismo, mientras que el monumento como símbolo de Milano, un renacimiento en continuidad con la arquitectura racionalista de la preguerra.

La levedad y el peso son la base fundamental de muchas obras de arquitectura.
Sin embargo, a mi que no me gustan las categorías compositivas, clasificaría la  levedad y el peso por cómo la arquitectura puede ser atraversada física y visualmente, levedad y peso se definen por la relación entre la arquitectura y el hombre.
Así es como una  arquitectura es porosa puede ser leve y una arquitectura cerrada, pesada.
Por ejemplo, una gran cantidad de la antigua Roma demuestra ser  ligera a pesar de estar hecha de piedra.
El Panteón, con su cúpula perforada al cielo,  es leve respecto a muchos edificios modernos de vidrio que se muestran cerrados y anclados al suelo.

Asocio simpleza y desnudez a la estructura.
Muchos de mis diseños imaginan estructuras «desnudas», elementos que miden el espacio, en equilibrio entre el paisaje y el hombre, estan alli, hacen de fondo, al parecer deshabitadas.
En realidad las imagino como estructuras a la espera de ser colonizadas y por lo tanto habitadas.
La estructura es el arquetipo que colonizado se convierte en arquitectura.
Adquiere significado a través del uso y se transforma para recibir y adaptarse a las necesidades que, la cultura, la sociedad y la política querrán darle.

En  arquitectura es muy difícil  inventar, imposible crear y fácil  copiar.
Así, damos per descontado que las dos primeras las dejamos a los pocos genios  que nacen en un siglo, no se puede hacer otra cosa que copiar.
La copia, sin embargo, vista como algo positivo, de crecimiento sobre bases sólidas que ya han sido pensadas y verificadas.
Después de todo la arquitectura es tambien técnica, ligada a un cierto empirismo.
Copiar es la forma más popular con la que la arquitectura se reproduce.
Se reproduce a través de «modelos». Un tipo de evolución darwiniana donde la copia siempre añade algo a la original.
Bruno Munari en «Da cosa nasce cosa»  escribió que el primer paso que el diseñador tiene que hacer para hacer frente a un nuevo proyecto es el estudio de las fuentes.
Copiar es tranquilizador, lo ya visto se entiende de inmediato, ya fue digerido, sin fatiga.
El problema comienza a ocurrir cuando la copia se hace para hacer algo «a la manera de», cuando se elimina la creatividad, que niega la evolución.
Luego, cuando se llega a este punto, sólo tenemos que esperar al genio!

Como  tradición en la arquitectura entiendo  todo lo que nos une a los lugares, objetos y costumbres de ese lugar.
Podemos pensar en la traducción como una acción de reescritura del lugar, de su arquitectura.
Un proceso creativo que viene desde el fondo de las cosas que tenemos.
La tradición y la traducción coexisten en un proceso creativo de transformación.
En este sistema la traición es la negación de la relación entre la tradición y la traducción.
Traicionar significa abandonar el lugar y operar fuera de sus valores y tradiciones.

Pienso en mi proceso de diseño, es algo que nace y se alimenta en mi país.
De hecho, en mi caso en una zona aún más estrecha, se alimenta de Roma.
La riqueza de un pensamiento está en su originalidad, en su  identificación y en su singularidad.
Cuando este pensamiento supera sus fronteras, se convierte, ante todo, en un bien para todos y luego en una herramienta para el diálogo y pone el pensamiento en crisis.
Comienza una fase de intercambio y diálogo que conduce a la evolución del pensamiento y a su adaptación.
Atención, a veces el nacimiemto de pensamientos dominantes pueden conducir  a posiciones ideológicas.
Mi pensamiento es un pensamiento elástico siempre dispuesto a cuestionarse, a  alimentar la duda más que  las certezas.

Los antiguos no distinguían entre lo clásico y lo moderno. Para ellos existían lo antiguo y lo moderno, más tarde el término «clásico» se utilizó para definir los modelos de griegos y romanos, que por períodos, en la historia de Occidente, es el estilo para copiar.
El clásico se convierte en lo estándar y las arquitecturas modernas que imitan lo antiguo  son lo «clásico». Esto para explicar que no me gustan las definiciones que a menudo se vuelven instrumentales.
Superestructuras que sirven para construir barreras y crear lobbies de pensamiento que se forman para crear hegemonías culturales.
En mis dibujos hay formas recurrentes, como el cuadrado y la estructura, en mi arquitectura no, el trabajo de un arquitecto está en continua evolución por lo tanto no esta atado a una idea estática de la forma. Para ser honesto, no me quedo atado al uso de una forma. La forma viene después.

La dialéctica de nuestro tiempo diría que es la forma-superficial. La contemporaneidad da forma a lo superfluo al exceso, a lo impresionante.
Todo debe mantenerse estrictamente en la superficie, sin tocar el interior de estas transformaciones, el origen de las cosas. Una super arquitectura como representación de la prosperidad occidental, el triunfo del consumismo y ciudades como atracciones de turistas.
Super-ciudad super-ciudadanos (por los medios de comunicación)
El arquitecto está llamado a dar forma a lo superfluo, confiamos en su talento, sin participación.

La historia de un pueblo se puede escribir a través de la arquitectura que produjo.
La arquitectura cuenta la estructura social, es la forma de un pueblo, o la forma de gobierno que el pueblo debe expresar.
Podríamos definir la forma del poder (no en  sentido negativo)

Hace unos años el estudio IaN + fue invitado a exponer en la Bienal de Venecia, un proyecto que investiga la «forma de la democracia». Presentamos el proyecto de una estructura abierta, contenedora de espacios donde  fuera posible  una democracia participativa, en oposición a las formas contemporáneas de la participación en la web, que echara raíces en el espacio físico.
El espacio físico que se colocó delante de los lugares de poder institucional como parlamentos o edificios de  gobiernos.
La arquitectura se convierte en la narrativa de este proceso de cambio y el arquitecto asume el papel del artesano y el perseguidor del pensamiento político (donde la política significan la forma dialéctica de relaciones sociales) su arquitectura se utiliza para satisfacer las necesidades.
Y entre las necesidades de un pueblo está aquello que debe ser representado.
El proyecto está diseñado para una sociedad en constante transformación, esto trae consigo la semilla de la inestabilidad, a pensar en la arquitectura «débil» para la ocupación temporal.

Pienso como arquitecto, de esto me di cuenta después de un tiempo que dibujaba.
La explicación es simple, un artista vive una condición de la libertad que el arquitecto no tiene, el artista podría incluso ni siquiera justificar su trabajo, en otras palabras, alguien más puede hacerlo por él. Esto no nos esta permitido como arquitectos, un arquitecto cataloga,  clasifica y estructura.
y sobretodo justifica el porqué de todas sus elecciones.
Lo hago con mis diseños, los reuno bajo temas, los ordeno en función de una idea de proyecto, de comunicación.
El diseño se convierte en la base teórica del trabajo del diseñador, y esto es inevitable  que pase, incluso no queriendo.

La relación entre el diseño y el proyecto es muy difícil.
El dibujo tiene vida propia y no es necesariamente una representación del proyecto, ya que puede ser la representación de un proceso.
En mi caso, los diseños son totalmente independientes del proyecto, siguen un camino paralelo, donde la convivencia entre ambos se ve socavada por varios factores que, en esencia, nacen cuando se enfrenta con la realidad.
Mis dibujos son una reflexión diaria sobre los temas de la búsqueda en la que estoy trabajando, una práctica diaria.
Esta investigación no sólo está vinculada a la arquitectura, por ejemplo en algunos collage saqueando las obras de grandes artistas del pasado, como Caravaggio, cuyas obras son a menudo sin un fondo construido.
Pongo, en este caso, un telón de fondo de arquitectura cambiando por completo el significado del espacio pictórico y desencadenando procesos de reflexión sobre la arquitectura, como el de la intrusión objeto anónimo en una obra maestra, es decir, la relación entre la memoria colectiva y acción individual, la relación entre el nuevo y viejo, o la violencia que cada transformación trae
todos los temas que se cruzan con la arquitectura, pero no desde el punto de vista formal.

El dibujo no puede ser considerado anacrónico.
Pensemos en arte de la calle, que  enriquece nuestras ciudades y es el arte del momento comunica a todos los niveles, pueden estar dentro o fuera del museo, en general prefiere mantenerse al margen. Es muy social y actúa en las zonas urbanas donde hay necesidad de arte, promueve transformaciones.
Esta forma de arte es esencialmente un dibujo en dos dimensiones, su fuerza es la bidimensionalidad, significa un todo con el muro, por lo tanto con el espacio de la ciudad.
Estar en relación con la historia y la memoria. Así que no podemos decir que definitivamente la bidimensionalidad es anacrónica.
Yo elegí el camino de la bidimensionalidad para crear a la fuerza un surco con el dibujo en tres dimensiones.
Ultimamente representar arquitectura significa hacerlo a través de imágenes reales.
El diseño ha perdido su autoría y se aplana en una representación fotográfica de lo que puede ser la simulación real.
El diseño de dos dimensiones sigue siendo el portador de ideas y conceptos.
Justamente en lo que queda entre la realidad y el diseño de la misma se logra comunicar nuestra idea de la realidad que necesitará de todas maneras de una carga  intelectual e interpretativa.
No puede ser la banalización de una  imagen hiperrealista.
Otro discurso es el del diseño paramétrico de la arquitectura.
En este caso no comparto la idea que, el objeto y su representación, son consideraciones contemporaneas  sólo por ser  productos de un cálculo de un software.
Mis diseños significan que somos nosotros los que elegimos el punto de vista y que somos nosotros los que decidimos la forma.
Por desgracia a menudo se confunden  el contenido y el contenedor.
El diseño digital tridimensional se considera contemporánea mientras que el dibujo en dos dimensiones no, independientemente de su contenido.

Como podemos hablar de un futuro sin la experiencia pasada, me gustaría salir del binomio del tiempo pasado y futuro y describir la enorme calidad de las cosas eternas, atemporales. Sin esperar el futuro.
Me refiero a la espera de algo que crea un deseo que sólo puede satisfacerse mediante el consumo o la saciedad de tener.
El dibujo no es esto y tampoco la arquitectura.
El dibujo vive en un tiempo suspendido, interpretable, ofrece una lectura del pasado y una estrategia para el futuro, pero está esencialmente aun en un tiempo indefinido.
En el collage la estructura es un elemento arquitectónico que se encuentra en medio del proceso de construcción, está incompleto, pero en el dibujo ya existe en un tiempo suspendido, sugiere la forma y el tamaño.
Los personajes tomados del mundo del cine son arrancados de su espacio-tiempo. Ficciones bidimensionales de realidades imaginadas.
Los dibujos quieren hablar de arquitectura, de ciudad, de  historia y de paisaje en una forma noble de desapego del mundo real, para llegar a la abstracción figurativa paradójicamente, objetiva y unívoca.
Mis dibujos sugieren caminos dialécticos entre  experiencia y distintas disciplinas, una narrativa que pueda poner en tela de juicio la realidad. Son estimuladores de la duda, la alimentan, hacen que se insinúe en la lógica de la certeza vista como única verdad y como comprensión de la realidad.
La lectura no es única, pero puede revelar diferentes datos desde el observador.
Un observador no pasivo, que participa activamente en la interpretación del diseño.
Los dibujos, son a menudo collages que toman piezas indiferentemente del antiguo al moderno, del clásico al anticlásico, del  paisaje común al paisaje noble, de lo natural a lo artificial.
No existe una identidad definida por orden cronológico, trabajan por ensambles de imágenes que son conceptos y formas que, en conjunto, como las proposiciones de una oración, dan sentido a la obra de arquitectura.
La teoría existe en la distancia, la brecha entre el diseño y la arquitectura, y la voluntad de hacer estos diseños independientes y autónomos.
La autonomía del dibujo es una forma de teoría, sobre todo si tenemos en cuenta la teoría como neta contraposición con la práctica.
La teoría, sin embargo, debe encontrar su aplicación práctica de lo contrario es sólo especulación.
Los collages ofrecen un imaginario como clave para la interpretación de las transformaciones posibles de la realidad, interpretan pero no construyen.

 

 

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Roma Luna Park – 2016

 

Sito in costruzione.
Sarà attivo a fine gennaio. www.baglivonegrini.it

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2 opiniones en “Carmelo Baglivo «Immaginare Roma è il mio modo di pensare l’architettura»”

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